E' la parola del mese di gennaio. Per anni ho associato il mese di gennaio al mese delle sventure.
Ma quest'anno ho deciso che non sarà così, e mi sono messa in letargo.
Un letargo pomeridiano e serale, a lavoro sono attiva, ma appena esco mi accascio e mi tuffo nella bambagia di casa mia.
Mettersi a riposo, occupare il proprio tempo libero per fare delle attività casalinghe, passioni da divano, riflettere e leggere, guardare un film. Attività che preferisco fare d'inverno.
E che inverno sia allora.
Mi piace la stagionalità, lo scandire del tempo metereologico con il tempo vitale e quotidiano. La natura con le stagioni vuole darci delle spiegazioni e degli insegnamenti, e portarci a seguirla in quanto esseri viventi attivi e naturali. E mi suggerisce riposo e letargo. Le giornate sono più corte, la luce è poca e questo ci aiuta a dormire di più, il sole corre basso e per poco tempo, e quando lo si vede alzarsi la mattina ci offre una luce talmente intensa che suggerisce di vivere al massimo le poche ore luminose disponibili.
E io mi ci sono adattata benissimo. Il letargo mi sta dando molti spunti per la tesi, leggo molto, scrivo e mi sono creata un mio posticino per terra sul tappeto del soggiorno con una montagna di cuscini attorno e qui sono comoda.
Adoro star seduta per terra: gambe crociate, stesa a pancia in giù, in ginocchio, ci starei sempre. E' la maniera per poter ricaricarsi dalla madre terra, anche se è il pavimento di casa, si può trarne comunque un beneficio. Se chiedete a mia mamma com'ero da piccola vi dirà che oltre a essere un maschiaccio e starmene appesa su rami di alberi, seduta su pilastri e traverse delle porte di calcio mentre i maschi giocavano, me ne stavo anche a studiare e leggere in camera seduta a terra tra i due letti. Istinto per ricaricami innato, e ne ho saputo il significato solo gli ultimi anni.
E così la mia letargia mi sta riportando una serie di ricordi di infanzia che mi stupiscono. Probabilmente anche gli studi dell'ultimo mese aiutano (ve lo dirò più avanti l'argomento...), e varie coincidenze mi hanno aperto dei cassettini della memoria molto remoti, e ciò mi ha fatto veramente piacere. Ed eccone alcuni:
- il sapone recuperato. In un commento di Feli in un post di Bibi, si parlava di rimasugli di sapone. E zac, l'immagine di mio papà che tritava i resti con un macinacaffè, e che impastava questa polvere con dell'acqua e poi la metteva ad asciugare in una calza di nylon rotta e poi stesa al sole.
- le caramelle di zucchero di mia nonna materna, che teneva in credenza sopra l'armadietto dei liquori, mi sono giunte da un ricordo olfattivo, annusando un prosecco martedì...quel zuccherino era quello della nonna Ippolita, inferma, che mi diceva di aprire lo sportello e di prendermi una "memela", un gesto che voleva sostituire una carezza che non riusciva a darmi.
- l'osso del finocchio. La parte dura centrale del finocchio finiva sempre sotto i miei denti. Mia mamma non la tagliava quando lo faceva in insalata, perchè troppo duro, e lo lasciava a me e a mio papà da sgranocchiare.
- la pinza. In dialetto veneto detta "pinsa", un dolce tipico delle festività natalizie, della befana in particolare, che immancabilmente non mancava dalla tavola della nonna paterna. La mia nonna Adelia, madre di 11 figli, nessun parto gemellare, era un portento di forza, grande lavoratrice e ottima cuoca, anche delicatina sul come fare, ma tutto era delizioso. E questo dolce che vi voglio proporre lo si fa tradizionalmente qui da noi, o con la polenta, o con il pane secco. Mia nonna non sopportava, e così pure io, la pinza con la polenta perchè rimane troppo poltigliosa-slipiga. La sua ricetta invece, che ora vi riporto anche adattata vegana come la faccio io, consiste in un impasto più sodo in cui il gusto eè quello della frutta secca che ci si aggiunge.
Pinza veneta di nonna Adelia
- 2 panetti di pane raffermo a pezzetti
- 1 litro di latte (io di soia)
- 1 cucchiaio di semi di finocchio (io un cucchiaino di semi di finocchio e uno di semi di cumino)
- 1 pacchetto di fichi secchi (gr 250-300)
- 250 grammi di uvetta sultanina
- 2 cucchiai di zucchero (io stessa dose di zucchero di canna o due cucchiai di malto o una decina di datteri a tocchetti)
- 3 cucchiaio di farina 00 (io semi-integrale)
Mettere a bagno nel latte il pane raffermo fino a che si rammolisce, e con un cucchiaio di legno aiutarlo ad assorbire più latte possibile. Quando diventa abbastanza poltiglioso, aggiungere la farina e lo zucchero e mescolare; poi è l'ora dei semi, dell'uvetta e dei fichi secchi tagliati a tocchetti precedentemente.
Questo composto non è detto che risulti sodo, anzi! spesso è un po' liquido anche.
Coprire con carta da forno una teglia rettangolare e versarci il tutto dentro.
In forno a 180 gradi. Quando si crea un colore bruno sopra, togliere la teglia dal forno, e in una padella da forno ricoperta anch'essa da carta, rivoltare la pinza, in modo che si cucini uniformemente anche il fondo. Infornare la padella, mantenere la stessa temperatura, ma qui serve l'impostazione "ventilato".
Una ventina di minuti, si formerà una crosticina sopra e spegnere.
Lasciar raffreddare e gustare con ciò che volete! Ottimo con il brulè ^_^
E voi ne avete qualche ricordo dell'infanzia che scalda il cuore in queste fredde giornate invernali???
Curiosa che sono...
e intanto continuo a rimanermene nel mio cuccio invernale, in attesa poi che la primavera mi insegni,
comeogni anno,
a rifiorire...